Il “glioblastoma multiforme” è la neoplasia cerebrale più frequente e aggressiva. si manifesta solitamente in età matura, con una maggiore incidenza negli uomini. Da anni, la comunità scientifica internazionale è impegnata nell’ardua ricerca per la sua difficile cura
La maggiore componente cellulare del sistema nervoso umano è costituita dalla “glia” (o “nevroglia”). Trattasi di una sostanza avente funzione di tessuto connettivo; precisamente, è un tessuto di sostegno dei centri nervosi, costituito da cellule fornite di numerosi e sottili prolungamenti che si intrecciano in maniera più o meno fitta, formando così la trama fondamentale (il cosiddetto “stroma interstiziale” del sistema nervoso centrale), nelle cui maglie si dispongono le cellule nervose ed i capillari sanguigni.
La sua esistenza fu postulata per la prima volta nella metà del XIX secolo da Rudolf Virchow, un patologo tedesco, il quale – all’esito di indagini microscopiche – giunse a formulare l’ipotesi che le cellule nervose fossero circondate e sostenute da un “cemento nervoso” (NervenKitte), per il quale venne coniato, appunto, il termine “glia” (dal greco “clèa” che significa “colla”). Tale prima evidenza scientifica fu seguita negli anni successivi dal riconoscimento della natura cellulare della glia, nonché dalla scoperta di diversi tipi specializzati di tale sostanza.
Oltre a fornire sostegno ai neuroni, le cellule della glia esercitano il controllo dell’ambiente interno del cervello, partecipano alla formazione di strutture specializzate (quali la barriera ematoencefalica e la guaina mielinica), e – inoltre – garantiscono l’isolamento delle cellule nervose e la loro protezione da agenti estranei o traumi. A dimostrazione del ruolo fondamentale svolto delle cellule costituenti la glia nello sviluppo e nel funzionamento del sistema nervoso vi è il loro coinvolgimento in molte importanti neuropatologie.
I tumori che originano dalle cellule della glia – ossia i “gliomi” – sono provocati da mutazioni genetiche, le cui cause sono tuttora oggetto di studio. Ne esistono diverse tipologie e le loro caratteristiche dipendono dal tipo di cellula della glia che viene colpita e dal tasso di crescita della massa tumorale.
Tra le neoplasie originate dalle cellule della glia, il “glioblastoma multiforme” (detto anche “astrocitoma di quarto grado”) costituisce una forma estremamente aggressiva di tumore che colpisce il sistema nervoso centrale. Si manifesta quasi esclusivamente nel cervello, ma può comparire anche nel tronco cerebrale, nel cervelletto e nel midollo spinale. Esso rappresenta circa il 45% dei tumori aventi origine nel cervello. Solitamente, colpisce in età matura (tra i 45 e i 75 anni di età), ma non è esclusa la sua insorgenza anche durante l’infanzia. Inoltre, è caratterizzato da una frequenza di nuovi casi (incidenza) leggermente superiore negli uomini rispetto alle donne.
I glioblastomi multiformi sono classificati come “primari” (o “de novo”), allorquando si manifestano come neoplasie aggressive e altamente invasive non derivanti da altre patologie. Meno comunemente si presentano come “secondari”, nel caso in cui derivino dalla progressione degli astrocitomi di basso grado.
La cura del glioblastoma è alquanto difficile, anche se con le terapie è possibile rallentarne la progressione e ridurne i disturbi.
Il glioblastoma multiforme costituisce un tipo di tumore cerebrale assai maligno, la cui più comune sintomatologia è caratterizzata da mal di testa di intensità crescente, nausea, vomito e attacchi epilettici; tali disturbi originano dall’espansione della massa tumorale all’interno del cranio (che provoca l’aumento della pressione e la dilatazione dei vasi sanguigni cerebrali). Può anche manifestarsi con sintomi di tipo neurologico e non specifici (come perdita di memoria, visione vaga o doppia, difficoltà nel linguaggio, cambiamenti di umore, nonché disturbi della personalità o dello stato di coscienza).
Oltre che dalle cellule gliali, i glioblastomi multiformi potrebbero derivare – secondo alcune evidenze sperimentali – anche da altri tipi di cellule aventi proprietà simili alle “cellule staminali neurali” (vale a dire, le cellule progenitrici da cui originano per differenziamento tutte le diverse cellule che compongono il sistema nervoso).
La più comune strategia di trattamento del glioblastoma multiforme prevede la massima rimozione (resezione) chirurgica del tumore primario, seguita da radioterapia e chemioterapia e, in determinati casi, da terapia con i campi elettrici[1] o da terapia farmacologica mirata (o “terapia bersaglio”)[2].
In genere, la rimozione fino al 98% della massa tumorale può migliorare in modo significativo la prognosi (comunque, tendenzialmente sfavorevole, dal momento che pochi pazienti sopravvivono per oltre tre anni).
Purtroppo, a complicare le strategie di trattamento chirurgico e a rendere quasi impossibile la completa rimozione è la natura stessa del glioblastoma multiforme ed il fatto che esso si confonde e si infiltra nelle altre cellule cerebrali sane, peraltro localizzandosi in aree fondamentali del cervello (comprese quelle che controllano il linguaggio, la funzione motoria e i sensi); tali circostanze pongono il neurochirurgo di fronte al rischio elevato di cagionare seri danni a regioni importanti del cervello.
Comunque, sono indubbi i vantaggi derivanti da un più esteso e radicale approccio chirurgico, in termini di riduzione della massa tumorale, alleviamento dei sintomi dovuti alla pressione endocranica esercitata dalla neoplasia, diminuzione delle probabilità di andare incontro ad una futura resistenza alle cure. Tale approccio consente di fronteggiare – almeno parzialmente – l’estrema aggressività di questa neoplasia, determinata, come poc’anzi evidenziato, dalla sua capacità di infiltrarsi anche nelle porzioni di tessuto cerebrale sano e di creare, in tal modo, i presupposti per eventuali recidive.
A rendere oltremodo difficile il trattamento di questa grave forma tumorale concorrono ulteriori problematiche: la sua capacità di creare nuovi vasi sanguigni all’interno della massa colpita (circostanza che favorisce un maggior apporto di ossigeno e sostanze nutritive alle cellule tumorali); la spiccata eterogeneità delle caratteristiche biomolecolari delle cellule neoplastiche (che le rende capaci di resistere a determinati trattamenti mirati).
Si è prima evidenziato che quanto più la rimozione chirurgica è estesa, tanto più aumenta la probabilità di compromettere alcune funzioni neurologiche fondamentali. Ovviamente, occorre trovare – anche ricorrendo al consapevole e partecipativo coinvolgimento del paziente in merito alla definizione della più opportuna strategia chirurgica – il giusto compromesso tra il primario obiettivo oncologico (la cura del glioblastoma multiforme) con la qualità di vita futura del paziente in seguito all’intervento.
Negli anni recenti, un crescente contributo è stato offerto dal ricorso alla “awake surgery” (chirurgia da sveglio), una particolare tecnica neurochirurgica – effettuata in anestesia locale – consistente nell’operare il paziente mantenendolo vigile e collaborativo per l’intero corso dell’intervento, verificandone costantemente funzioni motorie e di linguaggio, e così aumentando la probabilità di preservare quelle funzioni controllate dalle aree cerebrali non necessariamente intaccate dalla neoplasia. Pur trattandosi di una procedura indicata soprattutto per l’asportazione di tumori cerebrali di basso e medio grado, l’obiettivo è quello di consentire una resezione maggiore del glioblastoma multiforme e un minor rischio di deficit post-operatori.
Uno studio condotto negli Stati Uniti – pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Oncology – ha confermato l’importanza di una chirurgia estesa quale approccio maggiormente efficace contro il glioblastoma multiforme. I ricercatori hanno posto a confronto i tassi di sopravvivenza di distinti gruppi di pazienti affetti da tale neoplasia, in base all’estensione dell’area rimossa durante l’intervento chirurgico. In particolare, tra i pazienti monitorati da questo studio, sottoposti ad intervento chirurgico tra il 1997 e il 2007, ne sono stati individuati 62 operati in maniera radicale prima di ricevere una terapia adiuvante (radio e chemioterapia); la sopravvivenza media di questi pazienti è risultata di poco superiore ai tre anni. Invece, la sopravvivenza media dei pazienti che avevano ricevuto le medesime terapie adiuvanti, ma a seguito di un intervento chirurgico meno radicale, è stata di circa 16 mesi.
Questa significativa differenza in termini di sopravvivenza ha dimostrato – secondo gli autori dello studio – l’importanza del raggiungimento dell’estensione massima della resezione quando si opera un paziente affetto da un glioblastoma multiforme. Dunque, è necessario asportare la più ampia area cerebrale possibile. Ciò non garantisce una completa guarigione, ma può offrire al paziente maggiori speranze in prospettiva futura, a prescindere dalla sua età e dalle caratteristiche molecolari della malattia. In ogni caso, oltre alla chirurgia, contro il più aggressivo tumore cerebrale che può colpire in età adulta sono indispensabili le successive terapie adiuvanti.
Merita attenzione anche un altro studio più recente condotto presso l’Università di Calgary (Canada) – pubblicato su Nature Communications – che ha documentato una scoperta sul modo di fermare la crescita del glioblastoma multiforme, consistente nella riprogrammazione del sistema immunitario del paziente, finalizzata a metterlo in condizione di combattere questa neoplasia. In particolare, è stato scoperto che le cellule di glioblastoma secernono un fattore specifico, denominato interleuchina 33 (IL-33, identificato come un mediatore infiammatorio dei tumori cerebrali); trattasi di una sostanza che attira le cellule immunitarie verso il tumore e favorisce la creazione di un ambiente che cambia la loro naturale funzione: invece di combattere il tumore, per effetto dell’IL-33, le cellule immunitarie contribuiscono alla rapida crescita del tumore stesso.
Questa è un’importante scoperta che aggiunge un ulteriore tassello alla conoscenza e offre una nuova fondamentale traccia per la potenziale riprogrammazione del sistema immunitario al fine di contrastare il glioblastoma multiforme.
Per il trattamento di tale grave forma tumorale (e di tutte le altre neoplasie che colpiscono il sistema nervoso centrale) è quanto mai prezioso e necessario il costante impegno da parte dell’intera comunità medico-scientifica.
[1] Tecnica mirata ad inibire la capacità di moltiplicarsi propria delle cellule tumorali, basata sull’applicazione di tamponi adesivi sul cuoio capelluto, collegati a un dispositivo portatile che genera campi elettrici. Questa terapia si può abbinare alla chemioterapia e può essere praticata dopo l’intervento chirurgico.
[2] Terapia che impiega farmaci che agiscono su specifiche anomalie delle cellule tumorali responsabili del loro accrescimento e della loro proliferazione. Tali sostanze inibiscono i processi di moltiplicazione cellulare, annientando le cellule medesime. I farmaci (a base di bevacizumab) sviluppano un meccanismo d’azione che intercetta i segnali trasmessi dalle cellule del glioblastoma multiforme verso l’organismo, volti a incrementare la circolazione sanguigna e quindi il nutrimento delle cellule tumorali. Trattasi di un’opzione di cura farmacologica da adottare nel caso di inefficacia di altre cure.
Avv. Michele Ametrano
FONTI:
- Annette M. Molinaro, Shawn Hervey-Jumper, Ramin A. Morshed et al. – “Association of Maximal Extent of Resection of Contrast-Enhanced and Non-Contrast-Enhanced Tumor With Survival Within Molecular Subgroups of Patients With Newly Diagnosed Glioblastoma” in JAMA Oncology (2020). Link: https://jamanetwork.com/journals/jamaoncology/article-abstract/2760432
- Astrid De Boeck, Bo Young Ahn, Charlotte D’Mello et al. – “Glioma-derived IL-33 orchestrates an inflammatory brain tumor microenvironment that accelerates glioma progression” in Nature Communications, Volume 11, Article number 4997 (2020). Link: https://www.nature.com/articles/s41467-020-18569-4
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