Il New York Times racconta la storia di Jessica e Dan che hanno dovuto affrontare in contemporanea l’esperienza della malattia oncologica cercando anche di tutelare la figlia di due anni
Quando una persona incontra il cancro nella propria vita entra in una spirale di paure, sofferenze, speranze e fatiche che investe, sì, il malato stesso, ma anche le persone a lui vicine. Si tratta, infatti, di una battaglia che richiede cambiamenti radicali che vanno, inevitabilmente, ad intaccare la quotidianità anche nella sfera familiare e relazionale. Inoltre, la lotta al cancro richiede l’alleanza di persone vicine, siano essi parenti, amici, fondazioni dedicate o associazioni di volontariato.
Il New York Times, all’interno della raccolta Resilience, un insieme di storie che narrano la rinascita dopo periodi bui, ha dato voce al racconto di Jessica St. Clair – attrice e comica americana – e Dan O’Brien – marito di Jessica e poeta/drammaturgo – i quali hanno dovuto affrontare entrambi e in contemporanea l’esperienza della malattia oncologica. Nel settembre 2015, infatti, a Jessica è stato diagnosticato un carcinoma mammario (stadio 2B) e appena sei mesi dopo a Dan è stato detto che aveva un tumore al colon al quarto stadio trattabile.
Entrambi sono ora guariti e hanno voluto offrire, in un dialogo consegnato alla redazione, alcune riflessioni sulle loro strategie per la resilienza e per la tutela della loro unica figlia che, durante i loro trattamenti, aveva solo due anni.
La diagnosi: un mondo che cambia
DAN: Ero in sala prove e stavo mettendo in scena una mia opera teatrale, quando un messaggio di Jessica balenò sul mio telefono con i risultati della sua biopsia: “Ho il cancro!”. Immediatamente ho sentito che tutto era cambiato. Temevo per la sua vita, ovviamente. Ma sapevo, dai precedenti traumi che anche adesso avremmo dovuto cambiare tante cose. Non solo come vivevamo, ma in un certo senso chi eravamo.
Speravo potessimo essere autori, entrambi e insieme, almeno di alcuni aspetti di questo cambiamento. Quindi ho sostenuto con Jessica una sorta di radicale ottimismo – qualcosa di nuovo per entrambi – nonostante le statistiche nauseabonde e il compito scoraggiante che ci aspettava. Potevamo scegliere di immaginare, nonostante tutto, un futuro insieme.
La mia risposta alla maggior parte dei conflitti è sempre stata più una fuga che una lotta o, più precisamente, una specie di tolleranza stoica. Quindi durante i nostri 16 mesi di trattamenti contro il cancro mi sono avvicinato e mi sono aggrappato alla nostra piccola famiglia. Ho cercato di rallentare il tempo prestando molta attenzione ai nostri momenti insieme mentre li vivevamo, e ho lasciato andare la maggior parte delle altre preoccupazioni. Quest’ultima parte non è stata difficile: le condizioni di bilico tra la vita e la morte tendono ad affinare la propria attenzione.
JESSICA: Forse è la ragazza della Jersey in me, ma ero tutta “combattiva” quando mi fu diagnosticato il cancro. Ricordo che il chirurgo oncologico stava definendo le opzioni che avevo a disposizione, lo fermai e dissi: “Ho una figlia di 2 anni. Devo fare tutto il possibile per rimanere in vita per lei!”. Scelsi il trattamento più aggressivo: una doppia mastectomia con un’innovativa ricostruzione del seno in una fase, seguita da chemioterapia intensiva e radioterapia.
Il mio piano era di prendere in considerazione anche ogni “tampone” per gli effetti collaterali delle cure, in modo da poter rimanere (e apparire) più “sana” possibile durante i trattamenti e proteggere nostra figlia dal peggio. Raccolsi informazioni da chiunque fosse disposto a parlarmi e fui molto grata alle tante persone (tra cui tanti estranei) che scelsero di condividere con me i dettagli più privati delle loro storie. Ho provato di tutto, compresi tappi di raffreddamento (copricapo progettati per ridurre la caduta dei capelli), guanti e scarpette congelate per prevenire la neuropatia, agopuntura due volte alla settimana. Vuoi per un motivo o per un altro, sembrava che questi “tamponi” funzionassero: nostra figlia, Bebe, non ha mai saputo che fossi malata, quindi non ha mai avuto paura.
Quando ricevo chiamate da donne a cui è appena stato diagnosticato un cancro, interrompo tutto per parlare con loro. Condivido sempre con loro qualcosa che mi è stato detto quando ero nel profondo del mio trattamento di chemioterapia: quando tutto sarà finito, in realtà sarai più felice di prima. Sembra incredibile, ma è stato vero per me. So cosa conta ora: le persone che amo. Quindi trascorro tutto il tempo che posso per esprimere quell’amore e ricevere amore in cambio.
La pandemia di coronavirus e i ricordi della terapia
DAN: La pandemia ha suscitato alcuni ricordi della “quarantena-chemio” per entrambi. L’abitudine, la routine, il “rituale” – per non parlare del pensiero positivo – mi hanno aiutato molto in quel periodo. Nonostante il panico e il terrore notturni, ogni mattina aprivo le tende della camera da letto, parlando a me stesso dolcemente, come un mantra, “Vivrai, vivrai!“. Sento un po’ della stessa confusione di quelle mattine adesso, mentre spalanco le stesse tende alle nostre attuali incertezze.
Oggi scrivo più regolarmente che durante i trattamenti perché mi sento sano. Ma scrivere in mezzo al tumulto è una pratica che mi ha sempre salvato. E come Jessica, sento l’obbligo, persino il privilegio, di dire la verità su ciò che abbiamo passato. Questo è lo stesso impulso che mi ha fatto desiderare di diventare uno scrittore in primo luogo, come un ragazzo alla scoperta di autori che sembravano sfuggire al loro isolamento confluendo nel mio. Ciò che hanno scritto mi ha fatto sentire più forte e mi ha fatto credere che era – ed è – possibile sopravvivere.
JESSICA: Quando è esplosa la pandemia ho provato rabbia. Finalmente ci sentivamo a nostro agio nel vivere ciò che mi piace chiamare il nostro “sì alla vita post-cancro”, dicendo sì alle opportunità di allegria ad ogni angolo. E ora, invece, eravamo costretti di nuovo a stare dentro, costretti a temere per le nostre vite e le vite dei nostri cari, costretti ad aspettare che il tempo passasse. Questa rabbia sembrava familiare.
Non molto tempo dopo che la fine del trattamento di Dan, infatti, quando la possibilità di perderlo si era un po’ attenuata, la risposta alla lotta che mi aveva assistito così bene per così tanto tempo si trasformò in una rabbia ribollente e accecante, perché avevamo preso il cancro così relativamente giovani (io a 39 anni, Dan a 42) e sostanzialmente allo stesso tempo, perché mentre i nostri amici avevano un secondo figlio, noi stavamo combattendo disperatamente per le nostre vite. Ma alla mia rabbia non bastava più prendersela con il cancro. Iniziai a decidere di voler rivedere completamente la mia vita, la mia casa e il mio matrimonio. Ruppi i mobili della mia cucina, trascinai un Dan sconcertato in consulenza, dove abbiamo pagato un per farci dire che dovremmo programmare più serate . Ho imperversato per mesi e dopo ho quasi distrutto la cosa per la cui salvezza avevo combattuto così duramente.
Per fortuna mi sono svegliata, mi sono resa conto di ciò che stava succedendo e mi sono rivolta a un terapista del trauma che mi ha insegnato a calmare il mio corpo per calmare la mia mente. Oggi condivido ciò che ho imparato, in modo che le persone che attraversano la stessa cosa possano essere in grado di riconoscerla e chiedere aiuto. Non dobbiamo farlo da soli.
Trasmettere alla piccola Bebe i valori della resilienza e del sacrificio
DAN: Entrambi sentiamo che la nostra più grande responsabilità ora è aiutare nostra figlia a coltivare il proprio senso di resilienza. A 6 anni non può fare a meno di notare quanto drasticamente sia cambiata la sua vita.
JESSICA: In questi ultimi mesi abbiamo visto in lei un’ansia che non avevamo mai visto prima: un battito di ciglia, preoccupazione per i nonni lontani nel New Hampshire.
DAN: So per esperienza personale che i bambini sono in grado di adattarsi quasi a tutto, ma senza una guida quegli adattamenti possono avere ripercussioni più avanti nella loro vita. La mia speranza è che nostra figlia stia imparando alcune sane capacità di emulazione da entrambi i nostri modelli imperfetti.
JESSICA: Come ci si aspetterebbe da un padre che è un poeta e drammaturgo, Dan è molto bravo ad ascoltare ciò che Bebe sta provando e ad aiutarla a trovare le parole per esprimere queste nuove emozioni. Le sta insegnando ad essere paziente con se stessa e con il mondo che la circonda.
DAN: E da Jessica nostra figlia sta imparando quanto sia cruciale chiedere aiuto e offrirlo. Ho sempre ammirato il talento di Jessica per l’amicizia e la connessione con gli altri. È uno dei motivi per cui mi sono innamorato di lei. E mi sento fortunato a poter trasmettere queste abilità a Bebe.
JESSICA: Quattro anni fa, nella sala d’attesa prima di uno dei trattamenti di Dan, una donna anziana si avvicinò a noi, ci afferrò la mano e disse: “Avrete lunghe giornate da vivere ancora su questa Terra… Siate fiduciosi!“. Ed è esattamente quello che stiamo facendo, o proviamo a fare, e che speriamo di insegnare a nostra figlia.
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