La cura del cancro tra “medicina difensiva” e “medical malpractice”

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Il fenomeno della “medicina difensiva” si verifica allorquando i medici prescrivono test, procedure diagnostiche o visite, oppure evitano determinati pazienti o trattamenti ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per “medical malpractice

Si narra che – nel lontano IV secolo avanti Cristo – Alessandro Magno, gravemente ferito da una freccia che gli si era conficcata in corpo durante una battaglia, non riusciva a trovare un medico che fosse disponibile ad asportargliela. A un certo punto, il grande condottiero macedone, giunto alla consapevolezza della gravità della propria lesione e delle presumibili motivazioni per le quali i medici contattati si erano mostrati fino a quel momento tanto restii a intervenire, promise saggiamente l’impunità a tal Critobulo, che accettò di operarlo (Quinto Curzio Rufo in “Historiae Alexandri Magni”).

Quanto raccontato rappresenta uno dei più antichi episodi di “medicina difensiva”.

Nei secoli successivi, non sarebbero mancate tante altre analoghe situazioni, con medici altrettanto restii ad intervenire, se non in presenza dell’impegno – assunto dall’interessato o dai suoi congiunti – a rinunciare a qualsivoglia punizione o rivalsa nei loro confronti in caso di esito infausto.

Ai giorni nostri, le motivazioni della medicina difensiva moderna – originata negli Stati Uniti durante gli anni Settanta del secolo scorso, e poi diffusasi in Europa – sono ben differenti da quelle dei tempi antichi.

Alla base dell’atteggiamento difensivo assunto dalla classe medica vi è un consistente spostamento del punto di equilibrio della responsabilità sanitaria verso un assetto di tutela rafforzata del paziente, con il conseguente anomalo intensificarsi del contenzioso legale per medical malpractice (malasanità).

Attualmente, il fenomeno della pratica medica difensiva – che interessa anche l’ambito oncologico – non è suscettibile di una descrizione unitaria, essendo connotato da variegate modalità e strategie poste in essere da molti medici chiamati a prestare il proprio servizio.

Secondo la definizione maggiormente condivisa – quella dell’Office of Technology Assessment – “il fenomeno della medicina difensiva si verifica allorquando i medici prescrivono test, procedure diagnostiche o visite, oppure evitano determinati pazienti o trattamenti ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la propria esposizione ad un giudizio di responsabilità per medical malpractice. In particolare, allorquando i medici prescrivono extra test o procedure, essi praticano una medicina difensiva positiva; invece, allorquando evitano certi pazienti o trattamenti, praticano una medicina difensiva negativa”.

La definizione riportata – per quanto sia caratterizzata da ampi margini di indeterminatezza e risulti non esaustiva del fenomeno complessivo – rappresenta l’abbrivio per una consapevole riflessione sul tema, perché riesce ad accorpare l’insieme delle condotte (attive o omissive, consapevoli e inconsce) poste in essere da alcuni medici (comunque, non da tutti i medici, come è bene evidenziare), non obbedienti al criterio essenziale del bene del malato di cancro o affetto da altre gravi patologie, ma prevalentemente dettate da un puro intento egoistico e utilitaristico, vale a dire dalla preoccupazione di quei medici di non risultare eventualmente esposti al rischio di un contenzioso giudiziario.  

Come sopra anticipato, si distinguono due modalità di medicina difensiva.

Una “medicina difensiva positiva” (“attiva”), connotata da un comportamento cautelativo di tipo preventivo (“assurance behaviour”), esplicata in un eccesso di prestazioni e atti diagnostici e/o terapeutici non realmente necessitati dalla situazione contingente, e finalizzata a ridurre le accuse di malasanità. In tal caso, il medico mira a diminuire il rischio del verificarsi di esiti negativi per il paziente in seguito all’intervento sanitario, a preparare (in caso di esiti negativi) una documentazione che attesti l’avvenuto rispetto degli standard di cura previsti; ciò al fine di dissuadere i pazienti da azioni giudiziarie e di munirsi di una documentazione probatoria in caso di processo in tribunale. 

La “medicina difensiva negativa” (“passiva”), invece, si attua con l’astensione dall’intervento di cura (“avoidance behaviour”), ed è caratterizzata dal tentativo di evitare determinate categorie di pazienti o determinati interventi diagnostici e/o terapeutici, in quanto potrebbero prospettare il rischio di un contenzioso giudiziario. In tal caso, viene di fatto annullata la possibilità che si verifichino esiti negativi per il paziente imputabili al medico. Per questo, il malato di cancro o affetto da altre gravi patologie, allorquando è vittima della medicina difensiva negativa, rischia di non ricevere il necessario trattamento diagnostico e terapeutico.

Una volta, Umberto Veronesi, indimenticato luminare dell’oncologia, ha detto che “In sala operatoria, il codice penale prende spesso il posto del giuramento di Ippocrate”, individuando la ragione della medicina difensiva nella facilità di accesso alle informazioni (grazie soprattutto a internet) da parte dei pazienti sulla propria malattia, fattore che li porrebbe in una condizione di forte capacità critica nei confronti delle terapie decise dal medico, così predisponendoli a rivendicare un (ipotetico) danno subìto e a trascinare il medico in tribunale.

Pertanto, il medico – intimorito da tale eventualità – sarebbe indotto a cautelarsi, prescrivendo “tutti” gli esami diagnostici (anche quelli non necessari), oppure rinunciando ad un intervento chirurgico (che, a suo avviso, potrebbe non riuscire).

Del medesimo avviso si sono mostrati alcuni sociologi, che hanno rilevato come l’aumento della litigiosità giudiziaria in ambito medico discenda dalla facilità di accesso alle informazioni da parte dei pazienti, nonché dalla loro maggiore consapevolezza circa i propri diritti.

Eppure, la necessità di rendere i pazienti sempre più autonomi e capaci di partecipare consapevolmente alla decisione in merito alle terapie – il cosiddetto “empowerment” dei pazienti – costituisce uno dei capisaldi della medicina moderna e delle moderna bioetica. Infatti, da una visione paternalistica della medicina che investiva soltanto il medico (l’unico esperto) circa le decisioni terapeutiche da assumere (cui il paziente doveva passivamente sottostare), si è progressivamente pervenuti alla visione della medicina come pratica condivisa, che individua nella figura del medico l’esperto dal punto di vista scientifico e tecnico, ma che considera il paziente quale maggior esperto di se stesso, l’unico che sappia davvero quali obiettivi intende perseguire e con quali mezzi.

Il ruolo della “sovradiagnosi”

Nel tentativo di offrire una ulteriore chiave di lettura del fenomeno, soffermiamoci sui risultati di un interessante studio pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, originato dal drammatico incremento dell’incidenza del cancro alla tiroide negli Stati Uniti (da 3,6 casi su 100.000 nel 1973 a 15 casi su 100.000 nel 2014) di cui non era del tutto chiara la causa. In verità, secondo gli epidemiologi, numerose evidenze indicavano che tale incremento dipendesse – in gran parte – dalla “sovradiagnosi”.

È opportuno precisare che per “sovradiagnosi” si intende la situazione che si verifica allorquando alle persone vengano diagnosticate malattie esistenti, ma che – in diversi casi – presentano (anche se non trattate) una certa probabilità di non provocare in futuro alcun sintomo né il rischio di decesso. In pratica, la sovradiagnosi comporterebbe, oltre al (provvidenziale) trattamento di una malattia rimasta fino a quel momento “silente”, l’incremento numerico dei soggetti “indotti” – per tale via – a “vivere da malati”, con evidente e fattuale peggioramento della loro qualità di vita.  

Dunque, volgendo nuovamente l’attenzione allo studio citato, è stata valutata – utilizzando i dati governativi pubblici – l’associazione tra il “clima” legato alla medical malpractice e l’incidenza del cancro alla tiroide, al seno, alla prostata, al colon e ai polmoni negli Stati Uniti dal 1999 al 2012. Partendo dalla quantificazione del rischio di medical malpractice a livello statale come tasso di pagamento per medical malpractice, sono state valutate le associazioni tra incidenza del cancro a livello statale, tasso di pagamenti per medical malpractice e diversi fattori di rischio di cancro (questi ultimi includevano diversi determinanti sociali della salute, inclusi i fattori che predicevano l’accessibilità all’assistenza sanitaria). Da ciò è emerso che negli Stati con più elevato tasso di pagamenti per medical malpractice si è rilevata una più alta incidenza proprio del cancro tiroideo. Dunque, il clima diffuso intorno alla medical malpractice, unitamente all’intento dei medici di scongiurare eventuali citazioni in giudizio, può aver costituito un fattore determinante per la diagnosi di cancro alla tiroide. Questa può essere la conseguenza di un maggior ricorso alla medicina difensiva negli Stati con più elevato rischio di medical malpractice, che conduce ad un aumento dei test diagnostici dei pazienti con noduli tiroidei e – dunque – ad una potenziale sovradiagnosi.

Medicina difensiva e Medical Malpractice in Italia: la Legge Gelli-Bianco

A questo punto, volgendo l’attenzione all’andamento del fenomeno nel nostro Paese, proviamo ad aggiungere un ulteriore elemento di riflessione. A tal fine, è utile un articolo scritto da un team di studiosi impegnati presso l’Università del Salento e pubblicato sulla rivista scientifica Multidisciplinary Respiratory Medicine.

Questo studio,  basato principalmente su dati certificati da documenti pubblici, si è soffermato sulle cause di malasanità nel nostro Paese, alla luce dell’incremento delle pratiche di medicina difensiva; inoltre, ha puntato l’indice contro il mondo dei mass-media, colpevole di raccontare una medicina caratterizzata prevalentemente da successi e nella quale la morte non è da considerarsi un’eventualità contemplabile.

Gli autori dell’articolo scrivono che “nessun decesso avviene senza che vi sia un’accusa esplicita o un sospetto implicito riguardo al medico, nel quale viene posta una fiducia illimitata e acritica, praticamente una presunzione di onnipotenza. La medicina, però, non è onnipotente e, così, come ogni scienza sperimentale, è inesatta e procede per tentativi ed errori”.

Secondo questa analisi, la colpa dei mass-media sarebbe anche quella di raccontare storie di eccellenza in medicina, senza tuttavia specificare che certe competenze, e certe attrezzature, non sono distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale; in tal modo, viene data al paziente l’illusione che la migliore delle cure possibili, in realtà appannaggio di pochi fortunati, sia un diritto di tutti.

Tuttavia, gli autori non fanno cenno ai numerosi studi che dimostrano come la comunicazione della medicina non dipenda dai mass-media, ma dalla medicina stessa, che talvolta tiene a dare di sé la migliore immagine possibile, tralasciando di evidenziare le forti diseguaglianze che affliggono il sistema sanitario.

In Italia, un contributo volto a prevenire il fenomeno della medicina difensiva è stato reso dalla Legge dell’8 Marzo 2017 n. 24 (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”), nota come “Legge Gelli-Bianco”, che ha sgravato il medico in persona (non la struttura ospedaliera) di molte responsabilità.  

Di questa normativa segnaliamo due particolari profili inerenti il nuovo regime di responsabilità del medico in persona.

In ambito civilistico, la citata normativa ha definito una nuova ripartizione delle responsabilità tra l’ente ospedaliero e il medico.

Più precisamente, per la struttura ospedaliera (pubblica o privata) ha mantenuto una responsabilità di tipo contrattuale (articolo 1218 del Codice Civile), sancendo in pratica una presunzione di responsabilità in capo alla suddetta struttura, quindi con una modalità molto favorevole al malato eventualmente danneggiato che intenda ottenere un risarcimento del danno in sede giudiziale.

Invece, quanto al singolo medico, ha stabilito che egli – salvo che non abbia in essere con il malato un contratto d’opera – risponde soltanto in via extracontrattuale (articolo 2043 del Codice Civile). Questo significa, in poche parole, che l’onere della prova ricade sul paziente. Dunque, in tale specifico caso, non sussiste una presunzione di colpa del medico, ma è il paziente a dover fornire in sede giudiziale gli elementi comprovanti la responsabilità professionale. Ovviamente, questo rende molto più difficile una sentenza di condanna del medico al risarcimento dei danni.

In ambito penale, la “Legge Gelli-Bianco” ha introdotto nel Codice Penale l’articolo 590-sexies (“Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”), prevedendo che la punibilità dell’esercente la professione sanitaria è esclusa “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia” e il suddetto sanitario “abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. 

A tale ultima innovazione normativa sono seguite in giurisprudenza forti divergenze interpretative, poi risolte dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la Sentenza n. 8770/2018 che, oltre a confermare il ruolo decisivo delle linee guida in ambito sanitario, ha ridefinito i confini entro cui opera la suddetta nuova causa di esclusione della punibilità prevista dalla Legge “Gelli-Bianco”; tuttavia, questa sentenza – reintroducendo di fatto la distinzione tra colpa lieve e colpa grave del medico e, dunque, ripristinando seppur parzialmente la situazione normativa precedente nel campo della responsabilità medica (che era stata sancita dalla Legge dell’8 Novembre 2012 n. 189 di conversione in legge del Decreto sulle “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”, nota come “Legge Balduzzi”) – ha leggermente ridotto l’impatto della Legge “Gelli-Bianco” finalizzata, come già detto, a prevenire il fenomeno della medicina difensiva attraverso il restringimento del raggio d’azione della responsabilità penale (oltre che civilistica) nei confronti del singolo medico.

Ripensare il rapporto medico-paziente

In effetti, a fronte della molteplicità delle cause alla base del fenomeno della medicina difensiva, la soluzione per contenerne il ricorso da parte dei medici e per limitare i giudizi civili e penali per malasanità non può prescindere da un intervento che incida su ogni elemento del complesso sistema in gioco.

Soltanto un’azione coordinata – su educazione dei pazienti, formazione professionale dei medici e del personale sanitario, competenze dei medici in materia di comunicazione, organizzazione sanitaria e distribuzione delle risorse, mondo dei mass-media e sistema giudiziario – è possibile pensare di contenere il fenomeno della medicina difensiva, riducendo il ricorso alla giustizia civile e penale ai soli casi di gravi errori medici, dovuti a incompetenza o negligenza.

Per evitare che il medico assuma misure comportamentali difensive è necessario promuovere il riequilibrio del suo rapporto con il malato, attraverso l’utilizzo appropriato di alcune fondamentali metodologie.

Innanzitutto, occorre attribuire il corretto significato e dare concreta espressione alle linee guida, che devono essere mediate dalla professionalità e dalla esperienza del singolo medico, affinché rimangano strumenti utili e non annientino l’autonomia e la responsabilità professionale del medico attraverso una loro cieca e pericolosa osservanza.

Inoltre, è indispensabile da parte del medico una corretta informazione che conduca il paziente a un consenso consapevolmente prestato. La comunicazione deve assurgere a momento centrale di tale rapporto.

Informazione, comunicazione e relazione – soprattutto nella medicina oncologica –  devono necessariamente integrarsi.

In tal modo, il paziente – sentitosi adeguatamente accolto, considerato, curato e protetto dal proprio medico – avrà maturato l’impressione che nei suoi riguardi sia stato fatto il meglio e, qualora dovesse verificarsi un evento negativo, saprà accettare ciò che talvolta non può dipendere dalla capacità di chi lo abbia in cura, in un àmbito – come quello della medicina oncologica – spesso condizionato dalla più assoluta imprevedibilità.

Avv. Michele Ametrano

FONTI:

  • Andrea Lopes Pegna – “Medicina difensiva. Colpa dei medici o dei pazienti?” (2012);
  • Giorgia Guerra – “La medicina difensiva: fenomeno moderno dalle radici antiche” in Politiche sanitarie (2013);
  • Domenico M. Toraldo, Ughetta Vergari, Marta Toraldo – “Medical malpractice, defensive medicine and role of the Media in Italy” in Multidisciplinary respiratory Medicine (2015);
  • Brandon Labarge, Vonn Walter, Eugene J. Lengerich, Henry Crist, Dipti Karamchandani, Nicole Williams, David Goldenberg, Darrin V. Bann, Joshua I. Warrick – “Evidence of a positive association between malpractice climate and thyroid cancer incidence in the United States” in Plos One (2018).

EMERGENZA CORONAVIRUS

In merito all’emergenza coronavirus, la Fondazione Bartolo Longo III Millennio ha disposto un presidio informativo e di supporto per i pazienti oncologici impegnati in cicli di chemioterapia.
Tutti i dettagli sono esposti nella sezione dedicata all’emergenza (CLICCA QUI).


LEGGI ANCHE: La comunicazione tra il medico e il malato oncologico: l’attuale quadro normativo e il protocollo SPIKES


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